Terrasanta adulti
TERRA SANTA e LIBRO SANTO
I PATRIARCHI
«Mio padre era un Arameo errante; scese in
Egitto, vi stette come un forestiero con poca
gente e vi diventò una nazione grande, forte e
numerosa. Gli Egiziani ci maltrattarono, ci
umiliarono e ci imposero una dura schiavitù.
Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri
padri, e il Signore ascoltò la nostra voce…» (Dt 26, 5-7).
Il libro della Genesi presenta Abramo come un migrante, proveniente dalla città di Ur, nel Sud della Mesopotamia: la cronologia è molto discussa tanto che Abramo è stato collocato dagli studiosi in un arco di tempo che spazia dal II millennio a.C. addirittura fino all’epoca esilica (VI-V sec. a.C.). L’opinione più diffusa lo colloca attorno al XVIII sec. a.C., in quel periodo archeologico che viene definito «Medio Bronzo II» (periodo compreso tra il 1900 ed il 1550 a.C: circa).
Si tratta di un’ epoca di discreta prosperità per la terra di Canaan: gli insediamenti si moltiplicano, in particolare nella regione costiera, nelle colline della Shefela, tra i monti della Giudea e il mare, e nelle valli del Nord, cioè nelle zone più accessibili e fertili. La popolazione, di stirpe semitica, vive concentrata in piccole città-stato, a loro volta sotto il controllo politico dell’Egitto che, insieme all’impero babilonese ed agli Hittiti, costituisce una delle grandi potenze dell’epoca. I primi documenti che parlano della Palestina risalgono all’inizio del II millennio e sono i cosiddetti “testi di esecrazione” egiziani, figurine d’argilla rappresentanti i nemici fatti prigionieri sulle quali venivano scritti i nomi dei nemici stessi, accompagnati da maledizioni, insieme ai nomi delle città e dei re controllati dall’Egitto. I Cananei costituivano un popolo per lo più sedentario, la cui principale occupazione era l’agricoltura; i patriarchi, invece, ci vengono presentati come seminomadi, pastori di bestiame minuto e, occasionalmente, come piccoli agricoltori, senza dimora stabile: va comunque sfatata l’immagine tradizionale che paragona i patriarchi ai grandi nomadi del deserto, come i beduini che del resto appariranno solo molto più tardi.
Al di fuori dai testi biblici non possediamo alcuna testimonianza sull’esistenza dei patriarchi e questo non deve sorprenderci, vista la scarsa rilevanza storica che essi potevano avere. Proprio a causa di tale mancanza di dati i patriarchi sono stati considerati da alcuni storici come figure mitiche, invenzioni di un’ epoca molto tardiva, come quella dell’ esilio.
La situazione in cui ci troviamo non ci permette neppure di stabilire l’origine dei patriarchi: si è pensato che essi facessero parte di gruppi semitici emigrati verso Ovest all’inizio del II millennio (si è parlato di migrazioni aramee o amorree), ma la questione è ben lontana dall’esser risolta. Una ipotesi molto suggestiva, ripresa oggi da molti studiosi, è quella di collegare le migrazioni patriarcali con i cosiddetti Hapirû, gruppi nomadi e banditeschi conosciuti dai testi egiziani, bande che scorrazzavano per il Medio Oriente verso la metà del II millennio a.C. Ma ogni tentativo di identificare con gli ebrei(‘ibrim) questi Hapirû, non è stato finora convincente. Al1o stesso modo si è tentato di identificare gli ebrei con un gruppo di seminomadi di origine semitica, gli Shashu, attestati in Egitto tra il XV ed il XIII sec. a.C., ma siamo ancora nel campo delle ipotesi.
Si è anche tentato, vista l’impossibilità di risolvere questo problema, di trovare qualche corrispondenza tra le narrazioni patriarcali ed il periodo storico a cui esse si riferirebbero (il già ricordato XVIII sec. a.C.).
Alcune delle usanze che la Genesi attribuisce ai patriarchi potrebbero effettivamente essere poste in relazione con usanze analoghe note, all’inizio del II millennio, dai testi trovati negli archivi delle città-stato medio-orientali di Mari, Nuzi ed Ebla, archivi recentemente scoperti e ricchissimi di testi. Si citano a questo proposito l’uso di adottare il figlio avuto da una schiava: (come fa Abramo con Ismaele), l’uso di avere una schiava come concubina (Abramo ed Agar), la cosiddetta “legge del levirato”, per cui si era tenuti a sposare la moglie del fratello morto senza figli. Queste ed altre usanze relative allo stile di vita dei patriarchi così come ci appare dai testi biblici possono trovare qualche corrispondenza con i costumi delle tribù seminomadi che vivevano, all’inizio del secondo millennio a.C., nell’ambito delle città-stato sopra ricordate, anche se questo tipo di parallelismo è tutt’altro che certo.
Secondo la redazione jahwista la religione dei patriarchi è la stessa che avrà poi Israele: la fede in Yahweh. Ma le altre redazioni del Pentateuco suggeriscono un quadro differente: il noto testo di Es 3,13-15 considera Mosè come il primo cui fu rivelato il nome sacro, mentre Es 6,3 afferma esplicitamente che i Patriarchi non conoscevano Yahweh. A partire dagli anni Trenta si è sviluppata la tesi di A. Alt sul “Dio dei Padri”: il Dio dei patriarchi, che successivamente verrà chiamato Yahweh, è un Dio personale, il “Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe”, che, nella Genesi riceve nomi come “il Dio di mio padre” (Gn 31,5), il “Terrore di Isacco” (Gn 31,42.53), il “Potente di Giacobbe” (Gn 49,24). Non è possibile discutere nei dettagli la tesi di Alt, anche se l’ipotesi del “Dio dei Padri” appare suggestiva. I patriarchi adorano questo Dio, che significativamente porta lo stesso nome del capo degli dei di Canaan, El, in santuari locali come Betel, Dan,
Mambre, Sichem, santuari probabilmente già legati ai culti cananaici. Quando, molto tempo dopo, gli Israeliti
adoreranno Yahweh come unico e vero Dio, lo identificheranno con lo stesso Dio El, conosciuto dai patriarchi. Lo
storico, vista la povertà di dati a sua disposizione, non può dire molto più di questo: la storia patriarcale contenuta in Gn
12-50 è essenzialmente una storia di famiglie, tre generazioni (Abramo-Isacco-Giacobbe) nello spazio di ben tre secoli!
È chiaro che ci troviamo davanti alla semplificazione di una storia molto più complessa. Un elemento importante che
non va mai dimenticato è il fatto che il testo biblico rilegge ed attualizza la storia patriarcale: la redazione jahwista del
libro della Genesi (collocata usualmente intorno al X-IX sec. a.C.) vede le promesse fatte ad Abramo realizzarsi nella
monarchia davidica: Abramo diventa allora segno della fedeltà di Dio alle promesse fatte al re David. La redazione
sacerdotale invece, messa per iscritto all’ epoca dell’esilio babilonese, presenta l’itinerario di Abramo, da Ur dei Caldei
(popolo che nel XVIII sec. non esisteva ma che, significativamente, è presente quando il redattore sacerdotale scriveva)
fino alla terra di Canaan è lo stesso itinerario percorso dagli esuli di Babilonia durante il loro ritorno in patria: in tal
modo la storia patriarcale acquista, nel testo biblico, un valore simbolico che va molto al di là della sua storicità.
TRE TAPPE DEL PELLEGRINAGGIO PATRIARCALE
Rappresentando la risposta salvifica di Dio all’inquinamento diluviale delle tre dimensioni della creazione, causata dalla
triplice malizia del peccato – contro Dio, contro l’uomo/donna e contro la terra -, anche il cammino della famiglia
patriarcale originaria è scandito da tre tappe o momenti strutturali:
(a) La partenza e il cammino peregrinante del padre, Abramo, celebra la fede, come principio del ristabilimento
della verità della creazione nel rapporto dell’umanità con Dio (Gen 12,1-25,11). La storia di Abramo è la risposta di Dio
al primo peccato dell’Adam (uomo e donna).
(b) La riconciliazione fraterna dei due figli, con la loro differente vocazione e il loro diverso destino: Isacco (= «il
Signore sorride», il figlio della promessa, l’eletto) e Ismaele (= «il Signore ascolta», il figlio della carne: l’altro, a cui
partecipare e con cui condividere la benedizione) (Gen 16,1-25,18); e soprattutto Giacobbe (= «colui che tallona e
sorpassa») ed Esaù (= «mantello di pelo [rossiccio]») (Gen 25,19-50,14). Viene ristabilita la verità della creazione nel
rapporto dell’uomo con l’altro essere umano, il fratello. L’altro, però, secondo la creazione di Dio, è prima di tutto la
donna per l’uomo e l’uomo per la donna: comunione paritaria nell’accoglienza della rispettiva differenza. È la risposta di
Dio al secondo peccato, quello di Caino.
La fede deve diventare carità, aprendosi il cammino tra ostacoli molteplici (cf. Rm 5,1-5; 2Pt 1,5-7)
(c) L’interpretazione giusta della terra, del mondo e della storia a opera del fratello sapiente, Giuseppe, salva l’intera
famiglia umana (Gen 37,2-50,26). L’uomo umile e mite, che teme il Signore e spera solo in lui, erediterà la terra, perché
sa, dall’alto, come vivere in essa e come condividerla con tutti gli altri (cf. Sal 37,11; Mt 5,5). La fede, reintrodotta nel
suo rapporto con la terra, riconduce l’uomo alla verità di creazione del suo essere nel mondo, e perciò alla sapienza. È la
risposta al terzo peccato, quello dei costruttori della torre di Babele. La sapienza nella gestione dei beni del mondo è
possibile in chi mette tutta la sua speranza nell’unico bene: Dio. Alla fine del libro della Genesi ci è dato di contemplare
uno spettacolo di pace universale. Colui che si affida al Signore, e si lascia docilmente condurre dal suo timore-fede,
ritrova la originale bontà della creazione e ne restaura l’ordine primitivo. Per la mediazione di Giuseppe, il figlio di
Giacobbe-Israele, l’unico uomo giusto, eletto tra i suoi fratelli – il quale, venduto per gelosia, è stato assunto dagli inferi
della cisterna del deserto (Gen 37,24) e della prigione egiziana (Gen 39,20) fino alla destra del re, capo dei popoli (Gen
41,40-44; Sal 105,20) -, l’umanità è salvata dalla fame e trova , benedizione e pace. Immediatamente intorno a lui ci
sono i suoi fratelli, i patriarchi d’Israele. E intorno alle dodici famiglie di Israele, popolo di Dio, ci sono le nazioni del
mondo, l’Egitto e tutti i paesi vicini (Gen 41,53-57): una visione di ecumenismo universale.
Il binomio straniero e pellegrino, è diventato una definizione dei patriarchi e della loro discendenza fisica e spirituale,
di Israele e della Chiesa neotestamentaria, “pellegrina sulla terra” (come recita la nostra liturgia).
Esso ha avuto, all’inizio, un senso socio-economico e geografico: “Io sono forestiero e di passaggio in mezzo a voi”,
dice Abramo.
Difatti, la storia dei Patriarchi – Abramo, Isacco e Giacobbe – presenta la vita e le vicende di una piccola famiglia di
nomadi.
La terra che il Signore dona ai suoi eletti è “una terra di pellegrinaggio”, “una terra dove si è forestieri”.
La connotazione sociologica e geografica è scomparsa, ma il binomio è conservato con un senso filosofico, esistenziale,
quello della fragilità e della inconsistenza della condizione umana di fronte all’infinita consistenza del Signore Dio.
L’’ultimo fondamento, il segreto del “pellegrinaggio” del popolo di Dio: non la condizione sociologica nomadica, né
l’umana fragilità esistenziale, ma la fede, quella biblica, che è l’unica via attraverso la quale gli uomini possono
diventare graditi a Dio e ottenere la salvezza.
BIBLIOGRAFIA
• MAZZINGHI, STORIA D’ISRAELE, PIEMME
• MARTINI, ABRAMO NOSTRO PADRE NELLA FEDE, BORLA.
[wpdm_file id=59]